A OLTRE SCRITTURA L’ARTISTA ANTONIO ZENADOCCHIO (INTERVISTA A CURA DI MONICA PASERO)
Antonio
Zenadocchio
Delle sue opere mi
colpisce la loro forte impronta nel sociale. L’artista di oggi ci riserva
creazioni di grande rilevanza collettiva. Come ogni artista prende spunto da
ciò che lo circonda: natura, bellezza, emozioni… ma nelle sue opere c’è
qualcosa che va ben più in là del classico ritratto o paesaggio che siamo
soliti ad ammirare su una tela.
Nei suoi quadri oltre la
bellezza dei colori, delle forme, si espande il messaggio; ogni sua opera apre
alla riflessione. Quadri che parlano, raccontano il disagio, la
discriminazione, il dolore, l’ingiustizia. Opere che fanno da monito ad una
società spesso superficiale; si evince la forte sensibilità e attenzione dell’artista
verso le brutte realtà che ci circondano, spesso bistrattate dall’arte che
tende ad evidenziare solo il bello del mondo; qui invece vanno in scena anche
le innumerevoli brutture umane; pochi artisti celebrano nelle loro riproduzioni
la vita dal lato oscuro; testimoniando le vere condizioni sociali in atto.
Opere che, con le loro
contraddizioni esposte sulla stessa tela, svelano i due lati della medaglia
come in fondo fa la nostra esistenza che ci riserva sempre emozioni discordanti,
ma non divisibili nel nostro cammino.
Quando l’arte è davvero
emozione, liberazione da ogni cliché, ecco che nascono opere di tale portata
che ci mettono di fronte al bisogno di capire, di trovare un senso alle varie
mancanze di questa umanità.
Joni Mitchell diceva: “Quando il mondo diventa un pasticcio enorme con nessuno al timone, è il momento per gli artisti di lasciare il segno.”E ammirando le sue opere, posso proprio dire che questo artista ci sta provando.
A Oltre Scrittura ho il
grande onore di ospitare l’artista internazionale, Antonio Zenadocchio.
Innanzitutto,
ti sono davvero grata di aver accettato il mio invito; leggo dalla tua
biografia che sei cresciuto tra tele e pennelli e l’esempio di tuo padre
sicuramente è stata la molla che ti ha spinto su questa strada e qui ti chiedo:
hai voglia di lasciare ai nostri lettori un ricordo, un aneddoto che porti
maggiormente nel cuore di tuo padre.
Quando penso a mio padre,
nel campo dell’arte, mi ritrovo all’interno di un mondo che oggi è
completamente scomparso e che è invece di grande fascino. Per vivere mio padre
faceva l’imbianchino e per un buon arco di tempo ha lavorato insieme ad Amleto Concioni,
pittore anche lui scomparso anni fa e famoso in ambito aquilano. Quando si
entrava nei palazzi antichi, di cui L’Aquila è piena, il confine tra
imbianchino, pittore e decoratore (lui era un decoratore) diventano incerti. Ricordo
mio padre che preparava artigianalmente colori, pennelli e quant’altro
necessario per dipingere. In particolare, per i pennelli, prendeva delle setole
molto usurate delle pennellesse da imbianchino e le legava a bastoncini di
legno. Quelli erano i suoi pennelli. Per molto tempo ho pensato che quel modo
di fare fosse figlio delle sofferenze e carenze economiche del dopoguerra.
Invece quando mi sono accostato in modo più sistematico alla pittura ho
scoperto che quello era il modo di costruire i pennelli che usavano i grandi
artisti del passato, come Michelangelo e Raffaello, fino a tutto il settecento.
Quei pennelli erano molto personalizzati e quindi a misura dell’artista stesso.
Non consentivano le stesse pressioni di quelli industriali. Però ne ho usato
qualcuno e posso assicurare che il contatto con la tela (mio padre si costruiva
anche quelle da solo) ha un altro sapore. “Quel” pennello dà “quella”
pennellata, che è solo di “quell’artista”.
Nelle tue opere ho sentito forte la tua voglia di ribellione, molte delle tue tele raffigurano spaccati di un mondo spesso alla deriva. Quanto è importante oggi non tacere?
Non bisogna mai tacere,
anche se è necessario evitare di essere dei Don Chisciotte. Io sono laureato in
Scienze Politiche e anche per questo vedo un po’ più in profondità certe crisi
e derive attuali. Sono però nello stesso tempo convinto che l’arte si sia
adagiata un po’ troppo sulla funzione di denuncia sociale. Negli anni 70 c’era
una forte spinta al rinnovamento e l’arte ha fatto la sua parte. Le generazioni
nate dopo la seconda guerra mondiale cercavano di dare una spallata a un certo
provincialismo e un po’ tutto veniva rimesso in discussione. Era necessario
evidenziare gli squilibri di un sistema che era andato molto avanti sul piano
economico, ma ben poco su quello sociale e culturale. Oggi è diverso. Oggi
l’artista deve sempre denunciare, ma nel contempo deve sforzarsi di indicare
una via. Deve mettere in campo tutta la sua sensibilità per guardare più in là,
verso la piccola luce che si può intravedere in fondo al tunnel.
Nella storia che abbiamo
alle spalle spesso il corpo e l’anima sono stati separati. È stato dato grande
spazio allo spirito, mentre il corpo è stato a tratti quasi demonizzato. Nel
novecento, con l’avvento del materialismo storico, le parti si sono rovesciate.
Adesso il corpo, e con esso tutto ciò che è materiale e, in senso lato,
“commestibile”, è diventato il nuovo terreno mistico, mentre lo spirito viene
ridicolizzato e ridotto a sentimentalismo inutile. L’uomo ha bisogno di
entrambi, materia e spirito, per vivere in modo completo ed equilibrato. Ecco
perché io insisto molto sulla bellezza profonda. È quella che ci manca oggi. La
bellezza educa il cuore dell’uomo e lo rende migliore. Un cuore educato alla
bellezza sa godere di più la vita ed è meno soggetto a derive degradanti.
Peraltro non c’è vera intimità con un’altra persona se non c’è contatto
profondo, ed è lì che si scopre la vera bellezza.
La
tua vita è stata toccata da eventi importanti che nel tempo ti hanno forgiato e
portato ad essere il grande artista che sei. Tra questi ricordo il terremoto
dell’Aquila, la tua città, che hai vissuto in prima persona. Vuoi lasciare un messaggio di speranza per
tutte le persone che stanno vivendo il loro “terremoto” Come uscirne?
Pensando che un intoppo, per quanto serio e
grave, può essere un’occasione. In tutte le crisi occorre sempre tornare alle
proprie radici, che intendo nel senso dei valori di base, quelli con cui siamo
arrivati fin lì, per riconsiderare tutto e ripartire. Lo scenario è nuovo e può
dare nuove opportunità. Forse si aprono porte che prima erano chiuse e non
dobbiamo ostinarci a cercare di aprire quelle vecchie e bloccate. È solo una
perdita di tempo.
Sono stato a contatto
diretto con il mio grande maestro per circa due anni. È da lui che ho imparato
a guardare il mondo come un grande, a rispettare l’arte ed essere modesto come
l’ultimo degli uomini. Lui era un cultore della purezza, della musica senza
infiorettature (così diceva). I canti gregoriani erano il suo ideale. Ci disse
che una volta dal Vaticano gli avevano chiesto di modificarne qualcuno per
attualizzarlo. Rifiutò sdegnato perché sarebbe stato come vandalizzare dei
monumenti. Ecco un modo di essere piccolo e grande nello stesso tempo. Altri avrebbero
accettato per essere considerati importanti. Ma sarebbero durati lo spazio di
un giorno.
La tua arte viaggia per l’intero globo, hai esposto oltre che in Italia anche a Barcellona, Parigi, Budapest, Corea del Sud, Atene. La libertà di condividere comunicare in questo periodo è minata dalla Pandemia in atto, che sta causando danni, anche nel mondo artistico che vive di eventi, di unione e viaggi. Come stai vivendo questo momento?
Con apprensione, come
tutti, ma anche con fiducia. È in questi frangenti che si sfrondano le sovrastrutture
e si eliminano i parassiti. È un momento in cui si può lavorare in silenzio per
guardarsi meglio dentro e capire cosa è importante nella vita delle persone.
Quando potremo riuscire, lo faremo più maturi e più ricchi dentro. Anche meno
divisi perché questa pandemia sta dimostrando che nessuno ce la può fare da
solo.
Tra tutti i tuoi riconoscimenti
giunti negli anni al quale sei più legato e perché?
Circa
due anni fa ho dipinto un San Benedetto di grandi dimensioni destinato a pala
dell’altare maggiore per la chiesa di Arischia, la frazione dell’Aquila in cui
sono andato a vivere dopo il terremoto dell’Aquila. Si tratta di una basilica nata
nel XII secolo e più volte restaurata dopo i vari terremoti che l’hanno colpita
nei secoli. È stato decisamente emozionante entrare dentro secoli di storia e
di arte, ma soprattutto interpretare il santo protettore attualizzandolo alla
situazione sociale del post terremoto del 2009. Il riconoscimento mi è venuto
da tutta la popolazione perché è stato avvertito, cosa che desideravo
fortemente, come un simbolo di rinascita. Ho vissuto questo fatto come il
miglior premio che abbia mai avuto in campo artistico.
Se dovessi riassumere la tua intera esistenza in una sola parola, quale sarebbe e perché?
Passione. Nella mia vita ho sempre fatto le scelte spinto prima di tutto dalla passione. La ragione è sempre stata in forte subordine e a volte volutamente accantonata. Ho sperimentato ogni volta che le cose che ho fatto con passione sono riuscite bene, mentre quelle (poche a dire il vero) in cui ho deciso sulla base di calcoli razionali hanno dato risultati tiepidi e discutibili, se non negativi.
Se potessi fare un viaggio nel passato e conoscere un personaggio storico artista o non, chi sarebbe e soprattutto cosa gli domanderesti?
Sarebbe una donna: Giovanna D’Arco. Le
chiederei come ha fatto a conciliare le sue sensibilità femminili con quel
grande condottiero che è pure stata. Sono convinto che quelle sensibilità hanno
avuto un ruolo importante, ma avrei voluto sentire dalla sua voce come e
perché.
Un uomo riservato con una vita interiore intensa, ma non un solitario.
E giungo alla mia ultima domanda, di rito per Oltre Scrittura, e ti chiedo: quanto è stato importante per te il sogno nella tua vita?
È stato fondamentale. Il sogno è tante cose: è un
mondo che ti parla di te, è una spinta interiore forte, è quello che ti fa
pensare che vale la pena di soffrire per rinascere. I miei sogni mi precedono
sempre, anche se, ovviamente, solo alcuni e solo in parte diventano realtà.
Ringraziando Antonio Zenadocchio per questa bellissima intervista,
ricordo il suo sito e la sua Pagina Facebook.
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